L’America (e gli americani) prima di tutto! All’insegna di questo slogan Donald Trump ha sconvolto tutte le previsioni conquistando la Casa Bianca, concetto ribadito anche nel suo discorso di insediamento. Un principio che si coniuga in un ripiegamento della politica americana verso l’interno: minore presenza sullo scacchiere internazionale, ridiscussione dei trattati commerciali per cercare di sostenere l’industria nazionale, chiusura del mercato e sbandierato ritorno al protezionismo mettendo un freno all’import di prodotti stranieri, riscoperta del petrolio e dei combustibili fossili ritrattando gli impegni presi per la lotta al riscaldamento globale, ridiscussione delle politiche sociali interne a partire dalla riforma sanitaria di Obama che garantiva una copertura ai più poveri, grandi investimenti in infrastruttura. Il tutto in nome della promessa di un rilancio dell’economia di cui tutti gli americani potranno beneficiare.
Insomma, Trump annuncia una vera rivoluzione a livello politico e, soprattutto, economico. Fin dai primi provvedimenti appena insediato alla Casa Bianca il nuovo presidente americano ha messo in chiaro che non intende lasciare le promesse a livello di intenzioni, ma che sotto la sua presidenza l’America cambierà radicalmente. Cerchiamo di capire come:
Politica estera
Se Obama era guidato da una visione di un mondo senza armi nucleari, Trump è pronto a sostenere il riarmo globale. In primo luogo per bloccare l’influenza degli “Stati-canaglia”, quelli considerati pericolosi per Washington. A rischio quindi il processo di normalizzazione dei rapporti con l’Iran, con conseguenti conseguenze sul mercato del petrolio, le cui quotazioni avevano iniziato a scendere anche in vista del ritorno del greggio iraniano in un mercato già ingolfato da un’offerta sovrabbondante. In discussione anche gli impegni della Nato per la sicurezza in Europa che hanno irrigidito i rapporti con Mosca. In ogni caso la politica americana sembra puntare a un riarmo globale degli alleati, tanto che il comparto militare ha ripreso quota a Wall Street.
Commercio
Gli impegni presi in difesa dell’industria americana hanno portato a Trump l’appoggio decisivo dell’area industriale, la cosiddetta “rust belt”. Ora dovrà passare ai fatti. Già archiviato l’accordo di libero scambio con l’Europa, noto sotto la sigla di Ttpi, Washington si prepara a rimettere in discussione gli accordi commerciali esistenti, a partire dal Nafta, il trattato di libero scambio che unisce Stati Uniti, Messico e Canada, accusato da Trump di aver distrutto posti di lavoro americani a favore delle aziende delocalizzate in Messico, dove la mano d’opera costa decisamente meno. Il nuovo presidente ha anche promesso di imporre dazi sulle merci importate dalla Cina, in modo da farle diventare più costose e proteggere così i prodotti “made in Usa”. L’obiettivo di Trump è uno solo: aumentare i posti di lavoro a casa. E già le grandi aziende manifatturiere hanno annunciato drastici cambi di strategie, a partire dal settore automobilistico: Ford ha deciso di sospendere l’investimento per un nuovo impianto in Messico a favore dell’allargamento degli stabilimenti in Michigan, Fca (la Fiat, insomma) ha annunciato che investirà un miliardo di dollari in Usa, Toyota ha confermato la prosecuzione degli investimenti per dieci miliardi nei prossimi dieci anni. Le misure favoriranno la creazione di posti di lavoro in Usa ma non mancheranno di creare tensioni con i partner commerciali, rischiando di spingere pericolosamente verso il protezionismo, un aumento delle barriere al commercio per proteggere le produzioni nazionali.
Lotta al riscaldamento globale
A fine 2015 l’Accordo di Parigi era stato celebrato come un passo storico per contrastare il riscaldamento globale, basato sul consenso, condiviso dagli scienziati, che l’attività dell’uomo era ormai diventata insostenibile per il pianeta Terra e che è urgente agire. Oggi Donald Trump si spinge a denunciare il cambiamento climatico come un complotto orchestrato dalla Cina per mettere fuori mercato le imprese americane. Al di là delle provocazioni, Trump ha chiarito di non voler attuare l’Accordo di Parigi e di puntare con decisione sui combustibili fossili, a partire dal petrolio e dallo shale gas, il gas ricavato dagli infatti del terreno su cui gli Stati Uniti hanno investito con decisione. Scelta apparentemente confermata dalle nomine per i principali posti dell’amministrazione che si occupano del tema, tutti assegnati a negazionisti.
Immigrazione
In campagna elettorale Trump le ha “sparate” grosse sul tema dell’immigrazione, scaldando gli animi: si ha impegnato a costruire un muro al confine con il Messico per bloccare il flusso di clandestini, ha invocato un divieto assoluto all’ingresso dei musulmani per contrastare il terrorismo e ha promesso la deportazione di undici milioni di immigrati clandestini. Se anche non rispetterà per filo e per segno gli impegni, senza dubbio le politiche sull’immigrazione andranno incontro a una stretta. Alimentando anche i fautori di misure più rigide per contrastare il fenomeno anche in Europa, e a casa nostra.
Politica interna
In contrasto con il protezionismo commerciale, il presidente eletto ha invocato una svolta decisamente liberista in fatto di economia interna. A partire dalla sanità, per la quale ha promesso di rimettere mano all’Obamacare, la riforma con cui Obama ha garantito la copertura sanitaria anche alle fasce più povere, a favore della concorrenza tra i prodotti privati. Ma anche la politica fiscale sarà coinvolta: Trump ha promesso ricette estreme, che andranno oltre le riforme di Ronald Reagan: meno tasse per le imprese – aliquota massima del 15% rispetto al 35% attuale – e per i più ricchi (oggi l’aliquota massima è prossima al 40%). Misure che riapriranno il dibattito: l’intenzione è di ridurre le tasse per favorire la ripresa dell’economia, ma i liberal contestano misure che andranno ad aumentare le disparità sociali favorendo i ceti più alti, a discapito della classe media. Scelta liberista anche in fatto di finanza, dove Trump potrebbe allentare i vincoli imposti ai colossi di Wall Street. E non è un caso che la Borsa americana abbia salutato la vittoria a sorpresa con una “luna di miele” anticipata che ha portato l’indice Dow Jones a guadagnare quasi il dieci per cento in due mesi arrivando a rompere la soglia dei 20mila punti.