L’Istat l’ha sancito ufficialmente: il 2016 è stato per l’Italia un anno di deflazione, cosa che non succedeva da 57 anni. L’ultima volta era stato nel lontano 1959. Ma cosa vuol dire deflazione e perché dobbiamo preoccuparci? Per anni in effetti abbiamo avuto paura per l’eccessiva inflazione, vale a dire l’aumento dei prezzi. Chi ha una certa età si ricorda degli anni 70, di quando i prezzi si rincorrevano e i generi di consumo aumentavano ogni mese, soprattutto quando il cosiddetto “shock” petrolifero portò un aumento generalizzato dei prezzi.
Ebbene la deflazione è il fenomeno esattamente contrario: una diminuzione dei prezzi. Perché mai un fenomeno che potrebbe sembrare positivo per le nostre tasche è da considerarsi negativo per l’economia? Se infatti i beni di consumo e i servizi in media si riducono di prezzo significa che con la stessa somma di denaro possiamo comprare più beni o più servizi.
Quello che succede normalmente, per effetto della domanda e dell’offerta, è che l’aumento di domanda fa salire i prezzi e, al contrario, la diminuzione della richiesta provoca una discesa dei prezzi. Se i consumatori non comprano più come prima, i produttori e i commercianti tenderanno infatti a ridurre i prezzi finali per invogliare i clienti all’acquisto o alla sottoscrizione di servizi. Il risultato sperato è questo, ma in una situazione di crisi congiunturale una manovra di questo genere rischia di innescare una spirale negativa: i consumatori hanno minori somme a disposizione e di fronte a un trend di riduzione dei prezzi tenderanno a rinviare gli acquisti in attesa di ulteriori ribassi, mentre i continui abbassamenti di prezzi taglieranno i margini di profitto di produttori e commercianti. Questi ultimi, a loro volta, saranno costretti a ridurre i loro costi, riducendo gli stipendi dei dipendenti o tagliano la forza lavoro, di fatto andando a ridimensionare ulteriormente la disponibilità all’acquisto da parte dei consumatori.
Questo è il meccanismo nella teoria. Se poi andiamo a vedere i prezzi al consumo in Italia sono diminuiti nel 2016 di un misero 0,1%, che pare davvero un valore ininfluente. Ma che indica comunque una stagnazione complessiva dell’economia: la Banca centrale europea ha indicato come livello fisiologico di aumento dei prezzi un valore attorno al 2 per cento. Compatibile con una ripresa della crescita complessiva dell’economia che sia equilibrata, senza surriscaldamenti.
Per arrivarci gli Stati dovrebbero avviare una politica di investimenti pubblici – una politica cosiddetta keynesiana – che possa aumentare l’occupazione e aumentare il reddito disponibile per il consumo. È quello che ha annunciato in qualche modo il neo presidente americano Donald Trump, anche se lui punta maggiormente su una manovra di riduzione delle tasse e di incentivo degli investimenti privati per ridare slancio all’economia e al reddito dei cittadini americani.
L’Europa ha invece le mani legate dal patto fiscale che limita i deficit pubblici nell’ambito dell’Unione monetaria e quindi i paesi membri, soprattutto quelli che hanno già un deficit pubblico elevato, hanno grosse difficoltà ad aumentare gli investimenti pubblici o a ridurre le tasse, misure che comunque avrebbero l’effetto di aumentare il deficit a carico delle casse pubbliche. Proprio questo è uno dei fattori più critici per i detrattori dell’euro, che vedono (non del tutto a torto) nella moneta unica europea una camicia di forza che alimenta le spinte recessive o, comunque, contrarie alla ripresa economica.
La Bce ha cercato di fare la sua parte con il massiccio programma di acquisto di titoli di stato e di obbligazioni societarie (il Quantitative easing) con l’intenzione di aumentare la disponibilità di liquidità e di fondi che le banche avrebbero avuto a disposizione per far ripartire il credito al sistema produttivo, abbassando i tassi d’interesse. Ma finora l’intervento ha avuto effetti limitati. O, meglio, è stata sfruttata meglio da quei paesi che sono riusciti a utilizzare la manovra per riportare la fiducia nel sistema. Mentre in Italia non si è riusciti a far arrivare la maggior liquidità fino a chi ne aveva più bisogno, imprese e consumatori e, per di più, il deficit pubblico elevato impedisce manovre espansive di stimolo della domanda di altro genere. Se da noi i prezzi sono calati dello 0,1% l’anno scorso, in un paese come la Germania l’indice dei prezzi è così aumentato dell’1,7%.