La retorica vuole che il Monte dei Paschi di Siena sia la più antica banca del mondo e in effetti l’istituto senese viene da una storia di tutto rispetto, iniziata quasi cinque secoli e mezzo fa, nel 1472. Una storia che è stata però travolta negli ultimi vent’anni da una serie di scelte strategiche azzardate che si sono sovrapposte a un misto di malaffare, clientelismo locale, commistione con la politica e soluzioni finanziarie scellerate. Un mix che ha portato alla fine Mps se non sull’orlo del fallimento, quanto meno in una situazione di estrema fragilità patrimoniale che ha richiesto l’intervento del Tesoro per garantire i mezzi necessari per proseguire l’attività sulla base delle nuove regole europee. Mentre si discute sull’asse Roma-Francoforte sull’entità dell’intervento, cerchiamo di capire come si è arrivati fin qui.
Acquisizioni sbagliate (e strapagate)
Sarebbe difficile riassumere secoli di storia in poche righe, ma senz’altro fino alla fine dello scorso secolo il Montepaschi era istituzione rispettata, solida e fortemente radicata sul territorio, cui garantiva ricchi finanziamenti. Come racconta Cesare Peruzzi, nel momento della privatizzazione del sistema bancario italiano con la creazione della Fondazione Mps da cui dipendeva la Banca Mps, l’istituto aveva un patrimonio netto di oltre 14mila miliardi di vecchie lire. All’indomani della quotazione in Borsa (1999) la Banca si avventura in una campagna di acquisizioni che la porterà a diventare la terza banca italiana. Tra le più criticate c’è l’acquisto di Banca del Salento (Banca 121), prima banca online nazionale che avrebbe dovuto portare innovazione nel gruppo. Innovazione che invece dà vita a complicati piani finanziari di risparmio (“My Way” e “4You”) che si riveleranno ad alto rischio portando guai giudiziari a Mps e ingenti perdite ai risparmiatori.
Ma il passo falso decisivo che travolgerà la banca è l’acquisizione di Banca Antonveneta dagli spagnoli del Santander, che non immaginavano di riuscire a ricavarne oltre 9 miliardi di euro: tre volte il capitale della banca comprata, tutti in contanti. Una cifra che appare subito poco giustificata e che viene finanziata con ardite operazioni finanziarie su prodotti derivati (quasi tutte fallimentari), un aumento di capitale da 5 miliardi e un prestito obbligazionario da un miliardo. Siamo nel 2007. L’anno dopo la crisi finanziaria trascina il sistema bancario in una situazione drammatica che costringe molti Stati a intervenire per salvare le proprie banche. Mps si fa trovare in una situazione di grave fragilità, con il principale azionista (la Fondazione Mps) che non ha più fondi da immettere, dal momento che aveva già utilizzato tutte le munizioni del suo patrimonio per mantenere la quota di maggioranza nella banca.
Primo intervento dello Stato
Mps si trova costretta a dover chiedere in quegli anni ben 15 miliardi di euro al mercato per poter rimanere a galla, un indebitamento che costerà caro al gruppo senese. Nel 2009 c’è un primo intervento dello Stato che garantisce un congruo finanziamento a Mps attraverso i cosiddetti Tremonti bond, poi rimpiazzati dai Monti bond: fondi che alla fine vengono rimborsati , ma che portano il Tesoro a diventare il primo azionista singolo con una quota del 4% (la Fondazione è ormai scesa al 2,5%). E’ solo l’inizio di un intervento che sfocia oggi nel salvataggio pubblico di Mps.
La montagna delle sofferenze
Sofferenze, crediti inesigibili, crediti incagliati, non performing loans all’inglese: tecnicamente i termini sono leggermente differenti. Ma con sfumature diverse si tratta sempre di soldi che la banca ha prestato ad aziende e privati – è pur sempre questo il mestiere principale dei banchieri – e che è molto probabile che non rivedrà più. Soldi che quindi aprono buchi nel patrimonio degli istituti, se non adeguatamente coperta da garanzie e da riserve, e che rischiano di travolgere le banche stesse.
Per Mps il conto delle “sofferenze” è arrivato a un livello pauroso di oltre 27 miliardi di euro. Frutto in buona parte di quel connubio tra banca, politica e territorio che si è andato consolidando negli ultimi decenni. Un buco che ha impedito alla banca senese di passare l’esame della Banca centrale europea, alla quale la normativa dell’Unione bancaria ha delegato la cosiddetta “Vigilanza”, l’attività di controllo della solidità delle banche. Al periodico esame della Bce (gli “stress test”) della scorsa estate per verificare se le banche hanno il patrimonio sufficiente in proporzione ai prestiti sulla base dei criteri fissati a livello internazionale, Mps è stato rimandato. Per passare gli esami di riparazione deve raccogliere fondi in modo da ricostituire in maniera adeguata il capitale di garanzie, e contemporaneamente liberarsi dalle sofferenze. Solo così potrà ripartire.
L’aumento di capitale
La soluzione è stata continuamente rimandata per “esigenze” politiche – la banca senese ha il Pd come area di riferimento – fino al referendum del 4 dicembre. La vittoria del No e le conseguenti dimissioni del Governo Renzi hanno lasciato Mps senza una soluzione pronta. La richiesta italiana di rinviare l’aumento di capitale oltre la scadenza del 31 dicembre 2016 è stata respinta dalla Bce, che ha ribadito la necessità di una soluzione rapida. Tra i fattori che hanno portato a una soluzione in una settimana della crisi politica con il giuramento del Governo Gentiloni c’è senz’altro anche l’esigenza di avere pronta una soluzione per il nodo Mps.
La banca senese ha cercato di fare da sola, chiedendo ai suoi obbligazionisti di convertire le obbligazioni in azioni per evitare di perdere una buona fetta dei risparmi. I risparmiatori hanno aderito al di là delle previsioni, ma sono mancati all’appello i grandi investitori isituzionali che avrebbero dovuto garantire una buona parte dei famosi 5 miliardi richiesti. In tutta fretta alla vigilia di Natale il Governo ha dovuto approvare i provvedimenti per operare il salvataggio garantendo l’apporto necessario di fondi a Mps. L’entità dell’operazione è salita poi, su richiesta della Bce a quasi 9 miliardi. La partita è ancora aperta.
Ci siamo dilungati un po’, ma speriamo di avervi aiutato a orientarvi nel caso Mps. Nel prossimo post andremo a esplorare le caratteristiche dell’operazione che porterà alla prima nazionalizzazione bancaria in Italia dagli anni 30. Anche se di nazionalizzazione non si può parlare, ma di intervento temporaneo di sostegno del settore privato. E vedremo perché.